

Nel Dna dell'uomo, il gene della mafia. La mia teoria evoluzionista
04 marzo 2014
Dopo i tanti sequestri dei beni confiscati alle mafie grazie alle indagini delle Procure e delle Direzioni investigative e distrettuali antimafia, rispettivamente Dia e Dda, e delle diverse Forze dell’Ordine operanti nel territorio; le richieste di Roberto Saviano e delle associazioni (tipo Libera) di una legge antimafia europea e nazionale che possa non vanificare il buon lavoro effettuato in questi ultimi anni dagli inquirenti; dopo la scelta discussa del nuovo ministro della Giustizia e il processo del secolo sulla trattativa Stato-mafia; ultimamente, sembro trattare da vera specializzanda argomenti di crimine e malavita. Inevitabilmente, il mio pensiero di stima e coraggio va a tutti coloro i quali rendono la propria esperienza professionale e vita a questa missione sociale.
Ai tempi delle stragi ero ancora minorenne e da figlia originaria della terra mafiosa sicula, mi rendo conto, solo adesso, di quanto mi avessero destabilizzata gli attentati ai due magistrati antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una parte di me non ha voluto accettare il male e la morte che la criminalità genera. Ho preferito cancellare, credo per autodifesa, quei maledetti giorni. Ma, ho custodito nel mio cuore i volti e il coraggio dei due giudici e, rimosso, invece, per rabbia, impotenza e per una fragilità legata all’adolescenza, le crude immagini dei tg di quel periodo. Adesso che la Mafia è ovunque, tutto ritorna. A distanza di quasi 22 anni, vedo quanto io sia stata vicina ai pochi reali combattenti dello Stato, grazie alla mia esperienza lavorativa in Procura a Ct, e ai molti responsabili dei silenzi, invece, nella vita di tutti i giorni. Capisco, avendo maggiori strumenti a disposizione, i diversi retroscena politici cui ho assistito per lavoro e per conoscenza delle diverse figure politiche, più o meno di spicco. Finalmente, quel velo che ho portato davanti agli occhi è caduto. Ora, il concetto di mafia ha acquisito un significato. E’ stato il mio non voler accettare che teste altrui potessero dire, come in realtà hanno detto, Sicilia=mafia e siciliano=mafioso che non mi ha consentito di andare oltre. Oggi, però, che questo stigma non è più legato o ristretto solo alla Sicilia riesco a vedere con nuovi occhi il fenomeno. Non è per nulla facile educare i giovani al rispetto della legalità in ambiti sociali permeati al raggiro, al compromesso, all'accettazione o allo scambio di favori. I giovani stranamente, come è successo pure a me, pur respirandone l'aria e sentendone il peso preferiscono identificare la Mafia come un fenomeno astratto che quasi non li riguarda e tocca. In realtà quel fenomeno fa incetta dei loro stessi sogni e delle possibilità di crescita di uno Stato di diritto. Consiglio di leggere A che gioco giochiamo noi primati. Evoluzione ed economia delle relazioni sociali umane di Dario Maestripieri (Neuroscienze, evoluzione comportamentale, mia altra passione legata agli studi universitari). A me, solo la recensione ha suscitato diverse teorie. Ritengo sia un libro interessantissimo, utile spunto pure di analisi criminologica e sociale. Il professore di Biologia evoluzionistica dell' Università di Chicago, esempio anche di cervello italiano in fuga, spiega i diversi comportamenti legati alla vita sociale dei nostri parenti più prossimi, quali: la spontaneità delle relazioni affettive e disagi, la predisposizione naturale a formare clan più o meno legittimi, i nepotismi e le parentele. Consiglierei la lettura pure a chi tratta il crimine e ne fa o ne ha fatto la sua battaglia e ragione di vita. L'autore osa dire "La mafia fa parte di noi tutti, è inscritta nel Dna". Conclusione condivisibile. Infatti, in un certo qual senso, fa parte del nostro patrimonio genetico primitivo. Non dell'uomo del Sud o del Nord, ma dell'uomo di qualsiasi latitudine. Gli studi da me seguiti, confermano che tutto ciò non è una sciocchezza. E una mia tesi "evoluzionistica" confuta e approva quanto dice Maestripieri .
Partendo dal presupposto che i nostri parenti più prossimi sono i babbuini (lo spiega bene il libro "La scimmia che siamo" di Frans De Waal) non è detto che tutti gli individui, a mio avviso, abbiano superato il gap, ossia quello 0,1% che ci rende diversi dai babbuini. Forse a livello genetico qualche allele, accostatosi male, ha provocato un livello comportamentale non adeguato all'evoluzione della specie. Mi verrebbe da dire, che nei mafiosi il salto evolutivo non è andato del tutto a buon fine. Per questo, io sarei propensa a identificare i mafiosi - prendendo spunto dall’etologia - a metà tra una specie “stenotopica”, troppo specializzata e tendente ad estinguersi facilmente nei cambiamenti ambientali, e il babbuino. In pratica, li accosterei, per certi versi, a "ragni-babbuini" un po' evoluti, per il loro ripetere minuziosamente e incessantemente schemi prestabiliti, ben predefiniti e ripetitivi. E come accade per i ragni la continuità dei loro movimenti non viene spezzata nemmeno di fronte a cambiamenti negativi di ambiente. Ed è qui, secondo me, che emerge il piccolo salto rimasto forse incompleto. Mentre il ragno segregato in un altro contesto, continua da "solo" nel suo ripetere comportamenti innati fissi pur senza raggiungere più lo scopo, il mafioso, ragno-babbuino, trova subito strategie alternative che mette in campo solo grazie al supporto del clan. Da solo, infatti, non riesce perché non è del tutto specie “euritopica” avente cioè una dotazione di comportamenti specie-specifici e una specificità frutto di apprendimento e adattamento all’ambiente mutevole. Ha bisogno, invece, del gruppo come i babbuini. L'unione è la sua forza. Ma, se all'interno della cricca si insinua della "discontinuità" questa, prima o poi, è destinata a fallire perché la sua unica forza di sopravvivenza sta nel suo essere un intero. Questo spiegherebbe perché il mafioso è Capo ma non lo è mai come essere autosufficiente. Nemmeno il Capo dei Capi lo è mai stato. Il suo essere Capo presuppone sempre un'associazione con altri, poco importa, poi, che si stia al di sopra o al di sotto. In pratica, il mafioso da 'solo', come singolo individuo, non ha forza. Qui, l'analogia al suo essere ragno-babbuino. Se fosse solo ragno sarebbe destinato a soccombere, vittima dei suoi stessi schemi, ma è pure babbuino quindi si aggrega con spirito di sua stessa sopravvivenza al clan. Solo di fronte a discontinuità provocata dall' esterno il sistema scricchiola ed è destinato a crollare. Il mafioso è essere inferiore rispetto all'uomo che ha il gene recessivo. Tante teste ne fanno una. Ma nessuna è in grado mai di essere completa e autodeterminante. Non c’è una mente, è l’insieme di tante menti incomplete ma attente. Il suo attecchire e trovare spazio tra i deboli e in contesti precari di facile sottomissione spiegherebbe il condizionamento culturale a cui tutti gli individui sono soggetti. Questo rende il perché della sua manifestazione proprio in Sicilia, territorio storicamente costretto a diverse e multiple sottomissioni geopolitiche che hanno portato alla quasi consapevole accettazione della società di preferire una dipendenza di potere di tipo locale. Dal Meridione al Nord, però, prima la delocalizzazione poi la globalizzazione, e ovviamente il carattere recessivo o dominante della mafia nel Dna dell'individuo, hanno colmato i vuoti e le distanze riempiendo indistintamente i territori. Per questo la mafia è divenuta manifestazione di un modus operandi e si è manifestata, ovunque, a macchia d'olio. Ad oggi, non si è riusciti a distruggere questa testa multitasking perché l'essere umano pur adottando un grooming diverso, più razionale da quello tipico del babbuino, non crede , realmente quanto il ragno-babbuino nella congregazione e nell'unione del gruppo. Come il mafioso teme, però, la "discontinuità" espressione di un cambiamento che richiede riadattamento e utilizzo di nuove energie. Questa pigirizia, assenza di coraggio e di solidarietà sociale contribuisce all'allargamento del sistema mafioso caratterizzato da coesione, devozione e massima fedeltà al clan . Il non fare della società individualista, di fronte a una forza aggregaria, diventa comunque azione. E l'individualismo consente a quella parte di Stato malato di agevolare le teste incomplete che hannno nell'associazionismo la forza della loro esistenza. La società sana rimanendo estranea, inconsciamente per assenza di consapevolezza della propria forza superiore, soccombe e diviene connivente dei ragni-babbuini. Non è un caso ma una riprova che i nostri governi stabilmente ancorati ad una continuità abbiano generato il totale immobilismo della specie. La vera forza di questi esseri inferiori che dominano mercati, appalti e commercio sta nel loro saper creare relazioni d'onore, strette e solide. Il problema è quindi sociale. Se i cittadini onesti credessero, veramente, nella legalità e si mostrassero meno indifferenti alla solitudine sociale la mafia o la 'ndrangheta, la Sacra Corona Unita, la camorra, non attecchirebbero da nessuna parte! Perché, se è vero che il nostro codice genetico ci rende unici, è l'ambiente in cui viviamo che ci consente di essere e divenire quello che siamo.
Giusy Cantone
Il libro che consiglio. http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3bro751466
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